sabato 29 maggio 2010

Pil: il Piemonte è in declino, scende in quarta posizione


29 Mag 2010 - Più povero, più piccolo e con meno esportazioni di Lombardia, Veneto, Emilia e Toscana MARINA CASSI
TORINO

Declino è forse una parola grossa. Ma certo il Piemonte tanto bene non sta. Vecchio, con un crescita demografica ridicola, un Pil che sale meno che in altre regioni simili, un export che quindici anni fa era il secondo in Italia dopo la Lombardia e adesso è precipitato al quarto dopo Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.


La corsa della regione nel terzo millennio sembra essere rallentata, frenata rispetto a Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Liguria, Toscana. Dal 1995 - quando già aveva pagato un prezzo salatissimo alle reiterate crisi industriali - il prodotto interno loro (Pil) del Piemonte è cresciuto da cinque a nove punti percentuali in meno rispetto alle altre regioni prese a confronto. In valore assoluto il Pil piemontese è inferiore non solo a quello della Lombardia, ma anche quello di Veneto ed Emilia.

L’amara analisi è obbligata. Basta osservare i dati raccolti dall’Ufficio studi dell’Unione industriale. Il gigante fordista annaspa mentre nel suo corpo lievita un terziario «povero» fatto, per paradosso, più di badanti e servizi alla persona che di ingegneri dell’innovazione. Lo spiega Mauro Zangola che dall’associazione industriale da oltre trent’anni osserva i mutamenti.


E’ cauto: «Non so se si tratta di declino, certamente lo sviluppo spontaneo dell’economia piemontese basato sulla crescita dei servizi soprattutto alla persona delinea uno scenario non privo di incertezze».

Sintetizza: «E’ uno sviluppo più fragile che ha bisogno di essere irrobustito». E dagli uffici dove nel 1906 è nata la Confindustria fornisce una sua ricetta: «Servono iniezioni massicce di produttività, innovazione e manodopera qualificata. E’ una crisi di identità superabile recuperando i tradizionali motori dello sviluppo a cominciare dall’industria».


Un’industria che ormai produce «solo» il 30 per cento della ricchezza - era ancora il 47% nel 1981 e oltre il 56% dieci anni prima - e che in appena quattordici anni ha perso altri quasi sette punti. E questo mentre un indifferenziato terziario ne conquistava altri otto arrivando alle soglie del 70 per cento.

E’, ovviamente, una tendenza comune al mondo occidentale, all’Europa, all’Italia. Però in Piemonte il fenomeno è più accentuato. Infatti, il peso degli occupati nei servizi sul totale è cresciuto di circa undici punti, passando dal 52 per cento al 63. E’ aumentato in misura significativa anche il contributo del terziario alla creazione del prodotto regionale, ma il risultato finale è stato nel complesso deludente dal momento che nelle altre regioni il valore aggiunto è cresciuto a ritmi più sostenuti.

Tra le sei regioni prese a confronto, il Pil pro capite piemontese figura al quinto posto; era al quarto nel 1995 e la tenuta del reddito di ogni singolo abitante - comunque ancora molto sopra la media nazionale e in linea con le grandi regioni europee - è quasi certamente condizionata da un fattore anche esso negativo: la relativa stabilità della popolazione piemontese, cresciuta in oltre 14 anni solo del 3,8% a fronte del 9,2 della Lombardia, del 10 di Veneto e Emilia.

Il che significa che la torta della ricchezza cresce poco, ma crescono poco anche gli avventori così alla fine tutti riescono a avere la propria fetta come prima.

Naturalmente ci sono altri elementi con cui giudicare lo stato di salute di una regione. In Piemonte, ad esempio, il tasso di disoccupazione è il più alto delle sei aree analizzate. Era nel 2009 - nel cuore di una crisi tutta industriale - al 6,8% mentre nel 1995 arrivava al 9,8. Attualmente è il 5,4 in Lombardia, il 4,8 Veneto e Emilia, il 5,7 in Liguria, il 5,8 in Toscana. Però dal 1995 a ora il differenziale rispetto ai tassi delle altre regioni si è notevolmente ridotto: è in media tra uno e due punti sopra. Questo è un frutto buono della terziarizzazione che ha creato il 34% dei posti in più tra 1995 e 2009.

Il problema è che non si parte dal Piemonte per andare a vendere servizi nel mondo; l’export è ancora tutto o quasi di prodotti industriali, beni durevoli. E in questo caso è l’industria piemontese ad aver perso competitività: il valore delle merci esportate è sceso del 18,6%, a fronte della sostanziale tenuta nelle altre regioni. E così la quota di export sul totale nazionale è scesa al 10%. Troppo poco per una grande regione europea.

Tratto da lastampa.it

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