martedì 29 marzo 2011

DELITTO DEL "GRATTA & VINCI", NIENTE ERGASTOLO AI KILLER

Nella foto la vittima Osvaldo Squillace


TORINO - Al processo del delitto noto come quello del «Gratta&Vinci» - perché la vittima aveva vinto 500 mila euro alla lotteria istantanea - i colpi di scena non sono mai mancati. E così è stato anche ieri, al momento culminante della sentenza. La procura aveva chiesto due ergastoli per Renzo Brezil e la convivente Luciana Chiricò, imputati per l’omicidio di Osvaldo Squillace, ucciso a 43 anni alla periferia di Torino nell’aprile 2009 a cui la coppia doveva 10 mila euro.

Ieri una condanna a sorpresa: 18 anni per lui, difeso dall’avvocato Wilmer Perga, 10 per lei, assistita dall’avvocato Attilio Molinengo. La giuria di Corte d’assise, presieduta dal giudice Giampaolo Peyron, non ha riconosciuto la premeditazione, mentre ha considerato vera la tesi della provocazione da parte della vittima.

Un verdetto che ha scaldato molto gli animi dei parenti di Osvaldo Squillace. Il fratello Maurizio non ha resistito e, ancora in aula, ha urlato un sonoro «tanto che c’eravate potevate pure dargli un premio». «È una vergogna - prosegue l’uomo a margine della sentenza - mio fratello è sottoterra e quei due non hanno beccato neppure l’ergastolo». I pm Manuela Pedrotta e Stefano Castellani hanno sempre insistito sulla completa colpevolezza - con tanto di premeditazione - della coppia. Non si erano mai fatti convincere dalle varie tesi escogitate di volta in volta da Brezil. Varie le sue posizioni: dalla dichiarazione di innocenza, alla fuga dalla casa di cura che lo assisteva, alla confessione. «Sì, ho ucciso io Osvaldo», dichiarò quasi due mesi fa Renzo Brezil, 68 anni, inchiodato su una carrozzina.

E non era neppure il primo colpo di scena. Appena due settimane prima, Brezil era evaso dalla casa di cura «Fatebenefratelli» di San Maurizio Canavese, dov’era ricoverato per problemi cardiocircolatori, respiratori e un tumore alla prostata. Patologie che avevano convinto i medici a farlo uscire dal carcere.

Dopo la rivelazione, arrivarono le scuse e la giustificazione per la fuga: «Ero scappato perché cercavo l’uomo che poteva fornirmi l’alibi - disse in tono dimesso Brezil -, l’uomo che poteva dire che io ho sparato ad Osvaldo solo perché lui stava per ammazzare me. Non avevamo appuntamento: me lo sono trovato davanti al bar e ha cominciato a minacciarmi prima di puntarmi la pistola contro».

Ma la pubblica accusa replicò che il racconto era pieno di contraddizioni: «Hanno premeditato il delitto. L’hanno pianificato nei minimi dettagli. Invece di denunciare l’estorsione subita, hanno preferito farsi giustizia da sé e hanno continuato a mentire, cercando di farla franca, senza pentirsi». Ma l’ergastolo alla fine non è arrivato, per la soddisfazione degli imputati e dei loro avvocati.


La Stampa

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