
Sono passati dieci anni. Una lunga parentesi di silenzio, di oblio per Erica, la bambina che aveva avuto il coraggio di sfidare non solo suo padre ma anche le convenzioni dell’Islam rifiutandosi di accettare la separazione dalla madre imposta da un tribunale del Kuwait. Erica scappò di casa il 16 gennaio del 2000, una fuga mirata, rifugiandosi nelle sale austere dell’ambasciata italiana a Kuwait City dove l’ambasciatore Capece Galeota venne travolto da questa ragazzina, dalla sua storia e da un incidente diplomatico che scomodò le diplomazie di tre paesi: Italia, Kuwait ed Egitto. Il 9 agosto un aereo della presidenza del Consiglio la riportò in Italia, un «rapimento» per motivi umanitari su cui c’era l’accordo del Kuwait. Oggi quei giorni sono lontani, ma la fuga di questa ragazzina, di sua sorella e di sua madre non è ancora finita. Mi emoziono quando sento la voce di Stefania, la mamma, al telefono.
L’ho cercata per tanto tempo ma era come se lei e le bambine fossero state inghiottite dal nulla. Nessuna traccia di loro a Banchette di Ivrea, nella casa dei nonni, due persone speciali che hanno combattuto a fianco della figlia e delle nipoti. Possibile che dopo dieci anni la paura non abbia ancora lasciato spazio a una vita normale? Mi ricordo la prima volta che vidi nell’ambasciata di Kuwait City. La faccia da adolescente smunta dal non mangiare, una protesta silenziosa che l’ha portata alle soglie dell’anoressia, quegli occhi decisi, neri, profondi di chi sai che non mollerà. E Stefania, la mamma, avvolta da abiti che non lasciavano intravedere neanche un lembo di pelle, come l’Islam impone, La figlia più piccola, Marta, di otto anni, abbarbicata al collo, decisa a tutto pur di non separarsi dalle figlie. Oggi quella determinazione la ritrovo in una voce che racconta senza vittimismo quel che è stato la loro vita, da allora. «Vorrei che non si parlasse più di noi, vorrei essere dimenticata».
(LASTAMPA.it)
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