domenica 19 giugno 2011

IL TOUR DEL DOLORE PARTE DALL'EST E FINISCE PER STRADA


TORINO - Il ragazzo è robusto, atletico, i capelli neri e corti, gli occhi neri. Pantaloncini, zoccoli da spiaggia, indossa la maglia della Juve con il numero 10 di Del Piero. E’ senza braccia, amputate all’altezza delle spalle. Moncherini con i segni ancora vividi di una cicatrice recente, dal colore rosso bruno.

Stringe con i denti un piccolo cestino di plastica azzurro. Gli automobilisti lo guardano, alcuni si fermano, tanti danno soldi. Dall’altro lato della piazza c’è una ragazza, con una gravissima lesione all’anca; Roxana ha 22 anni, è romena, ha trascorso la sua vita in un centro di recupero nel Nord del suo paese. «Lavorare non posso, la mia famiglia non ha niente, quando mi hanno chiesto se volevo andare a Ovest ho detto sì».

Ma «chi» te lo ha chiesto? «Un uomo che aveva già preso altre persone come me, tornate con un po’ di soldi. Ho accettato». Roxana si avvicina faticosamente, trascinando una gamba ridotta quasi a uno scheletro, aiutandosi con un bastone, alle auto ferme ai semafori. E’ piccola di statura, quasi sparisce quando scende dal marciapiede, ricompare all’improvviso dopo aver oltrepassato un furgone.

L’autista è romeno, le parla nella sua lingua, a volte basta anche un solo sorriso. «Ci sono anche ungheresi, li vanno a prendere negli ospedali». Altro incrocio, altro disabile. E’ un cinquantenne gracile, rasato a zero. Canottiere e pantaloncini blu. Le sue gambe sono imprigionate in una protesi, una gabbia di acciaio e cuoio, forse appartenevano a una persona più alta, le cinghie sono strette in modo innaturale. Percorrere i pochi metri che lo separano dal punto in cui, in un equilibrio precario, allunga una mano per chiedere l’elemosina, è una specie di calvario, che si ripete, ogni volta.

Ci sono tre furgoni bianchi, con targa romena, parcheggiati nei giardini, all’inizio di corso Ferrucci. Fanno parte dell’organizzazione che sfrutta queste persone. Una donna sta cucinando qualcosa nella cucina del camper, i bambini giocano nelle aiuole, proprio di fronte. Sono con voi, i ragazzi al semaforo? «Si, noi gli aiutiamo, gli diamo da mangiare».

Presto ne andranno da Torino. Non restano più di venti giorni, al massimo un mese. Il tour prevede nuove tappe in altre città europee, non solo italiane. Il tempo di sfruttare lo choc e la pena che sollevano, come un riflesso automatico, quelle vere mutilazioni o esiti di malattie terribile e poi via, sino a quando c’è bisogno di nuovi figuranti, in grado di rappresentare al meglio il dolore e vere sofferenze.

Non c’è tempo per la pietà. Il ragazzo senza braccia, alle 20,30 ha finito il suo turno di lavoro e si avvicina, rapido, verso i camper. Una donna gli prende il secchiello, gli porge una bottiglia d’acqua, lui poi va a riposarsi su una panchina. Una ragazzina («sono sua sorella», dice), gli mette sulle spalle la giacca di una tuta. I bambini della comunità continuano a giocare. Via via arrivano gli altri. Hanno l’aria esausta, lo sguardo frastornato, come storditi dal fragore del traffico, i vestiti pieni di polvere. Gli assistenti li accolgono e li aiutano a riprendersi dalla fatica. Un catino pieno d’acqua e una spugna per lenire il male alle gambe.

Gente rassegnata, senza rabbia, senza odio. Lo spiega Roxana: «Non posso fare altro, non ho nessuna alternativa, a noi basta un piccolo aiuto». E «quelli» che ti aspettano? «Senza di loro non potremmo neanche sopravvivere, nel mio Paese non ci sono soldi per assisterci, il nostro destino è quello di morire nella miseria, è meglio stare qui, in Italia, se mi sento male mi curano negli ospedali».

Il capo degli assistenti è una donna sulla quarantina, abbastanza ostile: «I soldi li tengono loro, a noi danno un rimborso per il letto e per il cibo, ma sono nostri amici, nessuno li costringe. Non siamo criminali, ci aiutiamo solo». All’interno del camper sono montati letti a castello, ci sono panni stesi e ovunque flaconi di medicinali, creme, bende. Antidolorifici, antidepressivi. Per cancellare la disperazione.


La Stampa

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