martedì 21 giugno 2011

PROCESSO ETERNIT, "AMIANTO IN AZIENDA FINO ALL'86"


TORINO - Eternit, nella seconda udienza dedicata alla requisitoria, Guariniello concentra una vita intera, la sua, di processi. Quest’ultimo è decisamente il più imponente: per i numeri (3000 vittime del lavoro nocivo), i reati (disastro ambientale e omissioni dolose di cautele nei luoghi di lavoro) e la sfida che ha proposto (gli imputati sono i vertici di una delle major dell’amianto nel mondo). Il processo alla multinazionale Eternit diventa il coronamento di una carriera in cui il magistrato ha profondamente inciso sulla giurisprudenza in questa materia.

Fa scuola Guariniello e non è un caso che citi in aula, di fronte a decine di avvocati della difesa, «le 12 fondamentali sentenze, in gran parte emesse dal tribunale di Torino, sull’amianto e prodotti chimici che hanno causato centinaia morti in fabbrica». Ne emerge, di riflesso, la storia di stragi del lavoro che hanno imposto una diversa attenzione sulla salute come bene primario, da tutelare e «che ha imposto al datore di lavoro l’obbligo di informarsi e di tenersi aggiornato sugli interventi tecnologicamente adottabili per applicarli anche quando - la Cassazione è irremovibile - vi siano controindicazioni economiche».

«Quelle 12 sentenze - riparte Guariniello - riguardano i processi per l’Ipca di Ciriè, la Sia di Grugliasco, l’Amiantifera di Balangero, la Saca di Cavagnolo, le officine ferroviarie di Torino, l’amianto nel grattacielo Rai di via Cernaia....». Per i coloranti killer dell’Ipca morì un centinaio di lavoratori; quegli stessi coloranti, banditi in Italia, vengono utilizzati nella produzione made in China di t-shirt anche per bambini. E via con i quasi altrettanti morti della Società Italiana Amianto di Grugliasco in cui lavoravano tante donne e molte di loro se ne sono andate al creatore per un mesotelioma.

Una malattia terribile che tanti lavoratori Eternit hanno avuto o hanno in comune con i loro compagni di quelle fabbriche. Come ricorda nella sua prima parte di requisitoria il pm Gianfranco Colace trattando la responsabilità degli imputati Louis de Cartier e Stephan Schmidheiny quali «datori di lavoro che impostarono strategie industriali che non hanno impedito la strage di lavoratori a contatto con il rischio amianto».

Colace ha parlato per quasi 4 ore sull’argomento: fabbriche vecchie, soprattutto quella di Casale Monferrato, polverosità disastrosa, reparti particolarmente a rischio, controlli programmati, inefficaci e in parte, secondo lui, farlocchi. La difesa dello svizzero Schmidheiny gioca dall’inizio del processo sulla «svolta in materia di sicurezza imposta dal nostro cliente subentrando al vertice di Eternit e per cui investì 70 miliardi di lire».

Il pm eccepisce ripartendo da quel 1972: «Per completare quella programmazione si dovette arrivare a fine 1979. E comunque su una questione decisiva, l’impiego di crocidolite, l’amianto blu che avrebbe dovuto essere abbandonato subito, fu invece protratto in grandi quantità sino alla chiusura degli stabilimenti italiani e al fallimento». La crocidolite è sinonimo di cancro quasi garantito da 70 anni.

Aggiunge: «Abbiamo, fra i tanti documenti, la lettera che il presidente dell’Amiantifera di Balangero (gruppo Eternit) scrisse al dottor Rossi, dell’Istituto Superiore di Sanità, dopo che lo specialista, al convegno di Saint Vincent del 1971, disse che si doveva vietare l’import di crocidolite. Il dirigente Eternit gli scrisse per protestare: «In Italia non è proibito il fumo da sigaretta!».


La Stampa

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