martedì 8 febbraio 2011

LA MORTE DI PAPA' MI HA SALVATO DALLO SFRATTO


TORINO - Al telefono la sua storia la racconta in fretta, perché lavora tutto il giorno e ha mille cose da fare: la mamma anziana da chiamare, i pelati in offerta «da comprare subito ché poi finiscono», le figlie ragazzine da seguire. Deve convincerle che no, questa sera non possono uscire con i compagni di classe: «Ci sono state spese non previste».

Chi parla è una donna che vive con le stesse preoccupazioni di tutti quelli che campano con mille euro al mese - lei li guadagna in un call center -, una donna sola con i figli adolescenti da crescere e nemmeno un uomo che la aiuti a far quadrare i conti. «Non mi sono mai pianta addosso - dice - perciò, per favore, non scriva il mio vero nome sul giornale. Qualcuno potrebbe pensare che sto cominciando a farlo adesso e non mi va. Racconto di me per spiegare come sia possibile, nel 2011, a 47 anni suonati, tornare a vivere con i genitori. Per dire come ci si sente, che si prova, per far capire a chi comanda che bisogna cambiare le cose. Che si deve trovare un modo per rimetterle a posto, perché siamo una società sottosopra e così niente ha più un senso».

Chiara - il nome inventato le piace, lo sceglie lei stessa - nella casistica presentata ieri dall’Atc sull’aumento di richieste di coabitazione, è un numero, un dato statistico. Ma è la sua vita reale che a un certo punto si è scontrata con un affitto insostenibile da 700 euro al mese, lo stipendio che non bastava mai, e l’assoluta necessità, per sopravvivere, di tornare a stare con le due figlie nella casa dov’era cresciuta da piccola.

«Vivere così era diventato pesantissimo - ricorda Chiara con il tono di chi si è arreso -: ogni mese la paura di non farcela, i ritardi nell’affitto, le spiegazioni al padrone di casa, le notti in bianco per il terrore dello sfratto dal bilocale in periferia in cui abitavo e che, onestamente, nemmeno valeva tutti i soldi che pagavo. Ma gli affitti privati, si sa, hanno questi prezzi e io non sapevo più come uscirne: dovevo pensare a un tetto sicuro per me, ma soprattutto dovevo garantirlo alle mie figlie. Una è disabile».

A offrirle una via d’uscita arriva un fatto terribile: la morte del papà. «Mio marito lavora da anni in Germania. Cercava uno stipendio sicuro, ma non si è più fatto sentire, scomparso. Come punto di riferimento avevo mio padre, è mancato a ottobre, è stata dura. Poi mia madre, che sapeva delle mie difficoltà, mi ha detto: “Torna a vivere con me, ci stringiamo, ce la facciamo”. E ho accettato».

La mamma di Chiara ha 76 anni e una pensione minima di 600 euro che supera di poco i 700 con la reversibilità del marito. Abita a Barriera di Milano, in un appartamento di proprietà dell’agenzia territoriale che paga con affitto agevolato: 80 euro. Con le spese arrivano a 350.

«La casa era per due persone - spiega Chiara - oggi ci viviamo in quattro e la notte sembra di stare in un accampamento. Rinunce continuo a farne, ma per l’alloggio almeno tiro il fiato. Vuole sapere su cosa risparmiamo? Sulla salute». Già, perché i racconti di un welfare che in Italia funziona, ma purtroppo vacilla, arrivano sempre più spesso proprio da chi ha un basso reddito, dalle fasce più deboli: «Visite di controllo dal dentista, esami di prevenzione, le mie ragazze non sanno cosa siano. La mutua, oggi, passa poco, a meno che non ti ammali seriamente allora ti dà una mano».

Il racconto lo chiude tranchant la mamma di Chiara che un nome fittizio non ha intenzione di trovarlo: «Non ho l’età. E poi, oggi, sono le ragazze giovani che vanno in tivù a cambiare le loro generalità. Ecco, questo mi ripaga dei sacrifici che facciamo: mia figlia avrebbe potuto trovare soluzioni per incassare molto e avere una casa sua, ma si vede che l’ho educata bene. Oppure che certe scorciatoie non fanno proprio per lei».


LaStampa

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