mercoledì 23 marzo 2011

PIANO EMERGENZA IMMIGRAZIONE, AL PIEMONTE DUE-TREMILA PROFUGHI


Dalla Regione al Comune, passando per la Provincia, è tutto un far di conto sulla base di dubbi e preoccupazioni crescenti. Il tema è il piano d’emergenza per l’immigrazione innescato dalla crisi libica, presentato dal ministro dell’Interno Roberto Maroni alle Regioni durante l’incontro svoltosi ieri mattina al Viminale. Obiettivo dell’operazione: ridistribuire un’ondata di migranti che potrebbe raggiungere le 50 mila unità. Un numero giudicato dal ministro «molto realistico».

In base ai primissimi calcoli, approssimativi come i criteri di riferimento, il Piemonte potrebbe dover accogliere 2-3 mila profughi. Roberto Cota conviene sulla necessità di approntare un piano per non farsi trovare impreparati, ma in ultima analisi sposa la linea della Lega, ispirata alla cautela. Il timore rimanda alle tensioni sociali legate a un massiccio afflusso di immigrati in Piemonte. In aggiunta a quelli già presenti: «In ogni caso l’emergenza umanitaria riguarderà solo i profughi libici, ai quali si può concedere lo status di rifugiati. Non è la stessa situazione della Tunisia, dalla quale arrivano i clandestini. Per i tunisini sono già in funzione i Cie, che hanno una loro capacità di accoglienza».

Sergio Chiamparino mette le mani avanti: «Stando a quanto mi hanno riferito in Prefettura, il piano del Viminale dovrebbe escludere Torino. Dato l’eccesso di richiedenti asilo e profughi rispetto alla disponibilità, la nuova rete di assistenza coinvolgerebbe altre realtà piemontesi». Altrimenti? «Potremmo utilizzare dell’emergenza freddo. Al massimo 100 posti, eventualmente disponibili dietro precisi impegni del Viminale: dal sostegno economico ai tempi di permanenza». Antonio Saitta rimanda ogni valutazione a un confronto con Cota: «Immagino si sia impegnato con il suo ministro, il passo successivo sarà convocarci. E’ un tema molto delicato, da governare con tempistiche precise per evitare il nascere di ghetti. Per ora ne sappiamo troppo poco».

Dalla Prefettura, il capo di gabinetto Enrico Ricci esclude l’allerta. Ma precisa: «In caso di necessità il piano c’è. Ci siamo attivati per individuare soluzioni. E non sono alberghi». Se si tratti di caserme, altri edifici del demanio o strutture leggere tipo protezione civile, in città o fuori, il dottor Ricci non lo spiega. Ribadisce che «finora la Prefettura di Torino non è stata contattata. Nel caso, sapremmo rispondere».

L’assessore comunale ai Servizi sociali Marco Borgione spiega che «certo, se ci fosse un’emergenza i posti al coperto si troverebbero, tra caserme e scuole dismesse. Il punto è che dovrebbero seguire le risorse per andare incontro alle necessità essenziali, avviare veri percorsi di inserimento». E Pierluigi Dovis, direttore della Caritas diocesana: «Non abbiamo avuto colloqui diretti con la Prefettura, mentre già due settimane fa siamo stati contattati da Caritas italiana, che ha partecipato al tavolo con il ministero e ha preso l’impegno di verificare quanti posti siano disponibili in ambito strettamente ecclesiale». Oliviero Forti, responsabile del settore immigrazione, ieri ha parlato di 2500 a livello nazionale. «Per ora siamo in attesa di notizie più precise, poi vedremo se e come sarà far fronte ai bisogni, evitando di sovraccaricare la nostra città, già carica. Abbiamo fatto presente che qui non si è ancora risolta del tutto la questione dei profughi somali».

Fredo Olivero, direttore della Pastorale Migranti, denuncia «l’assenza di un coordinamento» e sottolinea la condizione dei 90 immigrati tunisini reclusi nel Cie. «Siamo entrati per insegnare loro un po’ di italiano. È una situazione assurda - dice -, non li fanno uscire, non sanno cosa fare tutto il giorno. Mi domando se sia giusto spendere 70 euro a persona al giorno per mantenerli in condizioni che non sono lecite secondo le direttive europee. Noi cerchiamo di stargli vicino, gli abbiamo mandato le suore salesiane che conoscono l’arabo, gli abbiamo dato i telefoni di alcuni studi legali, le carte per giocare. Ma non è così che si affronta un problema che esiste ormai da due mesi e resterà aperto per due-tre anni».


La Stampa

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