giovedì 5 maggio 2011

STRISCIONI E RONDE, IL PAESE SI RIBELLA AI 30 PROFUGHI


COAZZE (TORINO) - No, l’accoglienza non è stata certo delle migliori. E neanche di distaccata indifferenza. E se fosse stato possibile qualcuno avrebbe certamente anche bloccato la strada al bus che, ieri mattina, si è inerpicato fin lassù con i 31 profughi provenienti dal centro di accoglienza di Lampedusa. Lassù è borgata Ferria di Forno. Comune di Coazze, alta val Sangone. Montagna vera. Dieci residenti, che lievitano appena di numero durante l’estate. Ventisette a Forno. In questo borgo immerso nel verde, senza traffico, caos e tutto il carico di guai delle città, le trenta persone provenienti da Niger e Congo, uomini e donne più qualche bambino, nessuno li vuole. Ma il parroco di Forno, in piena emergenza profughi, aveva messo a disposizione la casa «San Francesco» un centro di incontro per giovani e non. E nei giorni scorsi l’aveva fatta ripulire da un gruppo di volontari: «È un gesto d’amore verso persone sfortunate, in fuga da paura, guerra e miseria».

Ma qui, a mille metri di quota, quel gesto non lo digerisce nessuno. Quelli della Lega Nord, hanno cavalcato la diffidenza. E la notte prima dell’arrivo hanno piazzato tre grosse lenzuola sui muraglioni di contenimento della montagna: «Fora dalle balle». E ancora «Forno di Coazze No Lampedusa! La Lega vigila. Cassaintegrati disoccupati e precari chi li aiuta?»

Quando, l’autobus scarica questo manipolo di rifugiati davanti alla casa parrocchiale, nella borgata cresce la paura. E qualcuno lancia la proposta: «Controlliamoli. Non con ronde vere e proprie, ma con discrezione. Sorvegliamo i movimenti di quella gente: non si sa mai». Non se n’è ancora fatto nulla: per ora sono soltanto parole. Come quelle di fuoco pronunciate contro il parroco, in primis, e poi anche contro il sindaco, Paolo Allais. Una raffica di frecciate: «Don Dino doveva ospitare gli africani nella casa dell’accoglienza della piccola Lourdes. Così quella gente se ne stava almeno a qualche chilometro da qui». Come dire: in altissima montagna. E ancora: «Il sindaco doveva chiedere il nostro parere. Noi paghiamo le tasse». Alcune donne, nelle ultime case della borgata, si mostrano desolate e preoccupate: «Noi siamo abituati a vivere come i nostri nonni. Lasciamo l’uscio di casa aperto e le auto con le chiavi inserite. Ora dovremo stare più attenti».

Il primo cittadino, uomo di centro destra, quasi indicato come corresponsabile di questa «invasione» non ci sta ad essere chiamato in causa dai suoi concittadini. E replica: «Anche noi non ne sapevamo nulla. Lo abbiamo scoperto da don Dino. Capisco che la Diocesi di Torino a casa sua può fare quello che vuole, ma dovevano almeno avvisarci per tempo». Trovare una voce fuori dal coro è complicato, ma alla fine eccola. È quella di Daniela Quarello: «Io li ho visti. Mi sembrano brave persone e bisogna aiutarle. Certo non è giusto si debba anche dargli una diaria mensile».

Ancora voci, discussioni. Polemiche. C’è chi sostiene che i profughi sono troppo lontani dalle città «Volevano andare a Torino, non in montagna». E chi traccia scenari preoccupanti. Fabrizio Rosa Brusin, uno dei promotori dell’iniziativa leghista allarga le braccia: «In valle già non c’è lavoro per i residenti. Questa gente che cosa farà?».


La Stampa

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