mercoledì 29 dicembre 2010

IN VIA CIGNA LA FABBRICA CINESE DEL "MADE IN ITALY"


TORINO - Non bussate alla porta del signor Hu Yunquian, non ama le improvvisate. Dagli infissi nuovi e spessi, verniciati color marrone, filtrano rumori attutiti: passi veloci, urla, concitazione. Le luci si spengono di colpo. Succede di tutto, tranne la cosa più ovvia: nessuno viene ad aprire.

Il quarto giorno, la signora Yunquian esce in cortile, in via Cigna 58, è esasperata, la butta sul piano umano: «Tu lavori, ma anche noi dobbiamo lavorare. Per favore... Perché vieni qui? I nostri clienti non hanno piacere di farsi vedere». La cosa strana è che non si tratta di un bordello, ma di un laboratorio tessile gestito da una famiglia cinese. Produce per conto terzi. In tempi di crisi come questi, anche per 1 euro a capo. Volevamo parlare del Made in Italy. Di questo speciale made in Italy. Dei pantaloni, delle camicie e dei vestiti che finiscono nelle boutique del centro a 9 euro e 99. Vengono fabbricati anche qui, con alterne fortune, da vent’anni. Non solo in Toscana, nella zona di Prato. Ma quello che conta - ovunque - è soltanto il come: in quali condizioni di lavoro.

Due anni fa un blitz dei carabinieri aveva messo in luce molte irregolarità nel laboratorio del signor Yunquian. Strani registri contabili. Condizioni non adeguate. Manodopera in nero. Non è facile approfondire l’argomento.

Il laboratorio è all’interno di un basso fabbricato. Non si vede dalla strada. Bisogna entrare nel cortile. Intorno ci sono balconi e ringhiere, il retro di tre palazzi ad angolo. I vicini raccontano storie impressionanti ma non verificabili. Come questa signora: «Un giorno ho visto sei lavoratori sul tetto che mangiavano ciotole di riso». Una commerciante: «Hanno aperto quella piccola finestra lassù - dice indicando dalle sue vetrine - per fa scappare gli operai. Quando arrivano i controlli, si arrampicano e saltano dall’altra parte. E chi li vede più...». Persi in un valzer di cortili.

Il signor Yunquian è iscritto alla Camera di Commercio di Torino dal 21 aprile 1998. La sua ditta è registrata come impresa artigiana nel settore sartoria-abbigliamento, con 9 addetti dipendenti. «Nove?», ride sguaiatamente una signora al citofono. «Sono molti di più, anche il doppio», assicura.

Certe volte le luci del laboratorio di via Cigna restano accese fino alle undici di sera. Ogni giorno, con cadenza regolare, almeno due furgoni vengono a caricare in cortile. Ma il punto è che i clienti italiani del signor Yunquian sono più misteriosi di lui. Uno dice: «Mi faccia qualsiasi domanda, ma non parliamo di prezzi e tessuti». L’altro scappa via muto e quasi spaventato, dopo essere stato un’ora davanti al portone, come in attesa del momento propizio. Evidentemente la sorpresa di un taccuino gli fa cambiare programma. Appena ci vede, riaccende il motore e sparisce. Perché?

Il signor Yunquian esce a parlare con la barba di due giorni e gli occhiali da presbite a tracolla: «Non avevo finito il modello, e allora se n’è andato». Ma per vedere un modello non c’era bisogno di piazzare il furgone contro l’ingresso, aprire il portellone e mettere in movimento cinque operai.

Alla fine il signor Youqnuian accetta di farci entrare, quando il laboratorio è vuoto. Ci sono scatoloni per terra, nastro isolante, forbici, cassetti aperti, seggiole verdi, modelli appesi, rotoli di stoffa, vecchie macchine da cucire, tubi alle pareti, rocchetti neri, stoffe, disordine, un orologio d’alluminio appeso a fianco di una vecchia televisione. Il signor Yunquian adesso dice: «Gli operai vengono pagati dal mio commercialista. Mi sembra 6 euro per un’ora di lavoro. Qui produciamo per conto terzi. Il capo più richiesto sono i pantaloni. Posso venderli da 1 euro a 5 euro al paio, a seconda del tessuto. C’è la crisi, tutti chiedono lo sconto».

I cinesi a Torino sono 5.500, 1500 vivono fra Porta Palazzo e Barriera di Milano. Cinquecento sono gli iscritti alla camera di Commercio: il 27 per cento è nella ristorazione, il 34 nell’abbigliamento, l’8 per cento nella produzione tessile. «Resta una comunità molto chiusa, quasi impenetrabile» dice Yu Xuzuan, titolare del ristorante “Le vie della seta”, presidente dell’associazione italo-cinese. Perché è così difficile parlarsi? «Non è solo un problema di lingua - spiega - tante volte anche io non so cosa facciano e cosa pensino altri cinesi che vivono qui. È un problema di comunicazione profonda, in tutte le direzioni».

La figlia del signor Yunquian parla bene l’italiano, è nata qui: «Due anni fa, quando erano venuti i carabinieri, qualcuno aveva detto delle cose sbagliate. Non è vero che c’erano dei minorenni a lavorare nel laboratorio. Ero io che giravo, come un figlio può stare nella panetteria dei genitori. Ma io vado a scuola, studio. Nessun ragazzo vorrebbe mai fare un lavoro come questo». È lei il vero ancoraggio con la città. Lei il primo vero passo di integrazione della famiglia Yunquian da 22 anni a Torino.



LaStampa

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