sabato 16 aprile 2011

"THYSSEN, OMICIDIO VOLONTARIO", SEDICI ANNI E MEZZO ALL'AD


TORINO - Quarantadue minuti per leggere la sentenza, le nove di sera, dopo i tg: «La seconda Corte d’Assise condanna Harald Espenhahn per omicidio volontario con dolo eventuale». Il presidente Maria Iannibelli pronuncia nel più assoluto silenzio i nomi degli altri imputati in un’aula strabordante di toghe, giornalisti, telecamere e soprattutto parenti e colleghi delle sette vittime della ThyssenKrupp di Torino. Ci sono più di quattrocento persone incollate alla sua voce: «Condanna Gerard Priegnitz a 13 anni e 6 mesi...».

La sentenza accoglie le dure richieste dei pm Raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca Traverso, va persino oltre: con Priegnitz, membro del board di ThyssenKrupp nel periodo della strage sul lavoro, escono dal processo altri tre imputati con la stessa condanna. Sono Marco Pucci, pure lui del cda, i dirigenti torinesi Raffaele Salerno e Cosimo Cafueri. Nei confronti di Daniele Moroni, dirigente con competenze nella pianificazione degli investimenti in materia di sicurezza antincendio, i pm avevano chiesto 9 anni di condanna, i giudici gliene danno di più: 10 anni e 10 mesi.

Ciò che più conta e colpisce di questa sentenza è la condanna dell’amministratore delegato di ThyssenKrupp Italia per omicidio volontario sotto il profilo del dolo eventuale: significa che il manager era consapevole del rischio di gravi incidenti per i lavoratori nello stabilimento torinese della multinazionale tedesca e che aveva deciso di correrlo, rinunciando ad investire in misure di prevenzione antincendio la somma messagli a disposizione pochi mesi prima dal working group della Tk sulla sicurezza: 800 mila euro per installare un impianto di rilevazione di fumi e spegnimento automatico del fuoco.

La scelta, di fronte alla prospettiva di chiudere a breve la fabbrica, fu di conservare la somma per il trasferimento della linea 5. I pm hanno sostenuto nella lunghissima requisitoria: «L’imputato ha fatto prevalere l’interesse economico sul fattore umano». I difensori hanno replicato: «È impensabile anche solo sospettare che l’ad possa aver messo a rischio consapevolmente la vita dei suoi operai». Nell’ultima replica, ieri mattina, il suo legale, Ezio Audisio, ha persino toccato un tasto inedito: «L’ingegner Espenhahn possiede le migliori caratteristiche del popolo tedesco, è meticoloso, quasi maniacale».

È stato sulla linea 5 che la notte del 6 dicembre 2007 un’onda di fuoco ha avvolto e carbonizzato l’esistenza di Antonio Schiavone, il primo a morire, 36 anni e tre figli piccoli; Roberto Scola, 32 anni; Bruno Santino, 26 anni; Angelo Laurino, 43 anni; Rosario Rodinò, 26 anni; Giuseppe De Masi, 26 anni, e il loro capoturno Rocco Marzo, 54 anni.

L’intera squadra del turno di notte cancellata, tranne Antonio Boccuzzi, salvatosi miracolosamente perché nell’istante del flash fire stava cercando di collegare una manichetta ad un serbatoio d’acqua. Si trovava dietro un muletto che lo protesse dal fuoco.

Profili delle condizioni di sicurezza in quello stabilimento: Marzo era da due giorni responsabile anche dell’emergenza e da due notti non riusciva a dormire per la paura di non essere all’altezza; non aveva ricevuto una formazione per gestire quel ruolo. Boccuzzi e Schiavone avevano alle spalle l’intero turno di lavoro del pomeriggio. Decisiva per lo sviluppo del fuoco fu la rottura di un flessibile che trasportava olio minerale nei circuiti oleodinamici della linea, alla pressione di 140 Bar. Esplosione, onda di fuoco schizzata a 9 metri d’altezza. L’azione di un lanciafiamme, l’ha definita un consulente tecnico dei pm.

È prevalsa la tesi dell’abbandono della fabbrica sul piano della sicurezza. Per questo i giudici hanno riconosciuto le responsabilità dell’azienda rifilandole pesanti sanzioni pecuniarie e interdittive. Poi, i risarcimenti: un milione al Comune di Torino, 973 mila alla Regione Piemonte, 500 mila alla Provincia, 100 mila a testa a Fim-Cisl, Fiom-Cgil, Uilm-Uil. E una sfilza di 50 mila euro ai lavoratori parte civile, fra cui Boccuzzi. Sentenza esemplare che solo un collegio di 7 donne su otto giudici poteva coraggiosamente fare propria.


La Stampa

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